L’essere umano è una squadra

«Essendo specializzato in matematica, credevo che il tutto fosse uguale alla somma delle sue parti, finché non ho cominciato a lavorare con le squadre. Quando divenni allenatore capii che il tutto non è mai la somma delle sue parti; è maggiore o minore a seconda di come riescono a collaborare i suoi membri». Questa affermazione è di Chuck Noll, il leggendario ex allenatore dei Pittsburgh Steelers. 

Fin dai primordi, gli esseri umani sono stati giocatori di squadra. Alcuni evoluzionisti identificano il momento in cui hanno iniziato a emergere le capacità interpersonali come quello in cui i nostri antenati scesero dalle cime degli alberi per vivere nella vastità delle savane, una situazione in cui il coordinamento sociale nella caccia e nella raccolta dei frutti della terra offrì significativi vantaggi. La cooperazione fornì questo vantaggio e con essa emerse un complesso sistema sociale che fece progredire l’intelligenza umana. 

Molte persone, però, sono ancora influenzate dalla teoria proposta alla fine del diciannovesimo secolo dai darwinisti sociali, i quali per sostenere l’idoneità individuale introdussero l’espressione della “sopravvivenza del più adatto”. Essi si servirono di questo concetto come di una base razionale per celebrare la competizione sfrenata e ignorare la triste condizione di chi non ha mezzi né diritti. Oggi, nella teoria evoluzionista, quest’idea è stata rovesciata dalla semplice intuizione che l’adattabilità evolutiva non si misura in base alla resistenza ma al successo riproduttivo. Da questa prospettiva, l’elemento chiave ai fini della sopravvivenza umana non è la spietatezza di individui solitari, ma la collaborazione di gruppo tra individui che cooperano uscendo alla ricerca di cibo, nutrendo i bambini e difendendosi dai predatori. Peraltro, fu lo stesso Darwin (a volte mal interpretato) a proporre che i componenti dei gruppi umani, pronti a cooperare al bene comune, sopravvivessero meglio e avessero una prole più numerosa di quelli appartenenti a gruppi che badavano solo al proprio interesse, o degli individui solitari che non facevano parte di alcun gruppo. 

La neocorteccia, ossia gli strati superficiali del cervello che ci conferiscono la capacità di pensare, è un’importante eredità dell’esigenza umana di riunirsi in gruppi. Un moderno retaggio di quel passato vissuto dai nostri antenati è anche quel radar dai noi posseduto che rileva la disponibilità all’amicizia e alla cooperazione. Ognuno di noi gravita verso chi mostra di possedere queste qualità. Abbiamo anche un sistema di preallarme che ci mette in guardia verso chi potrebbe essere egoista o non meritare la nostra fiducia. Come ha messo in evidenza Daniel Goleman nel suo libro “Lavorare con intelligenza emotiva”: «Operare in un gruppo coordinato – indipendentemente dal fatto che si tratti di un team in un’azienda o di una banda di protoumani intenti a vagabondare nella savana – richiede comunque un elevato livello di intelligenza sociale, ossia la capacità di interpretare e gestire relazioni interpersonali. L’intelligenza sociale fece la sua comparsa molto prima che emergesse il pensiero razionale. Le abilità di pensiero astratto della specie umana trassero poi profitto da una neocorteccia originariamente sviluppatasi per venire alle prese con una realtà interpersonale immediata. D’altra parte, la neocorteccia si evolse da strutture più antiche del cervello emotivo, ad esempio l’amigdala, e pertanto è saldamente allacciata ai circuiti delle emozioni ». 

John Seely Brown, scienziato presso la Xerox Corporation, sottolinea che la natura essenziale del coordinamento sociale forse non è mai stata tanto evidente come nelle odierne imprese scientifiche, in cui il fronte della conoscenza avanza attraverso sforzi ben organizzati e collaborativi: «molti teorici pensano all’apprendimento da un punto di vista esclusivamente cognitivo, ma se si chiede agli individui di successo di riflettere su come abbiano imparato ciò che attualmente sanno, diranno: “abbiamo appreso la maggior parte di ciò che sappiamo gli uni dagli altri”. Questo richiede intelligenza sociale, non solo abilità cognitiva». Nel mondo della Ricerca e Sviluppo ogni cosa è fatta in modo collaborativo, come del resto, oggi nel mondo dell’alta tecnologia. Non ci sono geni solitari, da nessuna parte. L’importanza della collaborazione e del gioco di squadra è ancor più rilevante nell’odierno ambiente di lavoro dove ciascun individuo possiede solo una parte di tutte le informazioni e dell’expertise necessari per svolgere una attività. Pertanto, la rete, o il team, di persone alle quali possiamo rivolgerci per ottenere informazioni ed expertise sono di importanza sempre più vitale. Mai come ai giorni nostri dipendiamo dalla mente del gruppo. 

Non c’è dubbio che la mente del gruppo possa essere di gran lunga più intelligente di quella individuale; su questo punto i dati scientifici sono schiaccianti. A tale proposito, sempre Daniel Goleman ci spinge a un auto-esame coscienzioso: «Anche coloro che sottoscrivono la spietata ideologia secondo la quale “gli affari sono una guerra” e che non vedono ragione di coltivare un tono più umano, probabilmente farebbero bene a riflettere sull’immenso sforzo investito dagli eserciti nel coltivare lo spirito di corpo a livello di gruppo. La sofisticata intuizione di ciò che fa funzionare bene un’unità sottoposta a pressioni straordinarie ha sempre indicato che i legami emotivi fra i membri del gruppo sono fondamentali per il morale, l’efficienza e la sopravvivenza stessa degli uomini». Ed anche nelle aziende, quando i gruppi funzionano bene e hanno un collante emotivo forte, fenomeni quali il turnover e l’assenteismo declinano, mentre il benessere individuale e quindi la produttività tendono ad aumentare. 

Quindi ricordiamoci sempre che:  

…… se vuoi andare veloce puoi andare da solo, ……. ma se vuoi andare lontano, devi essere in team!

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