Sulla saggezza pratica

Secondo Aristotele la saggezza pratica è «Una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire e concerne le cose che per l’uomo sono buone e cattive». Quando, nel 2016, ho cominciato a parlarne con alcuni business leader e con alcuni Direttori del Personale ho destato un misto di curiosità e di scetticismo, essendo chiara la contrapposizione con l’approccio (tuttora) dominante delle cosiddette “competenze comportamentali” o soft skills. Le grandi imprese di solito prediligono sapere, di una persona da assumere o da promuovere, se e in che misura questa copra con i suoi comportamenti effettivi un profilo ideale di competenze comportamentali o di leadership. A sua volta, questo profilo ideale è dedotto dalla mansione, dai valori, o, più in generale, dalla visione del CEO. 

Per esempio, per citare un documento pubblico, le Autorità bancarie europee hanno varato di recente una lista composta da sedici soft skills da usarsi come criteri di prestazione per valutare candidati alle posizioni di vertice di una banca. Le imprese inoltre chiedono agli assessor di queste competenze comportamentali di segnalare i punti di forza e di debolezza dei candidati, e di prognosticare tempi e azioni di sviluppo. Secondo i fautori di questo approccio, le capacità cognitive dei canditati sono solo una porzione delle soft skills da valutare, accanto ad altre di tipo realizzativo, relazionale, emotivo; mentre la saggezza pratica, così come definita da Aristotele, sembra essere una capacità esclusivamente cognitiva, visto il riferimento esplicito al “ragionamento”. 

In realtà la definizione aristotelica di saggezza sottende tutt’altro. Aristotele ci dice che qualunque azione umana deve essere decisa prima di essere messa in pratica. Dopo venticinque anni di ricerca in campo neuro-scientifico e cinquanta in quello della psicologia cognitiva, oggi sappiamo quanto Ipse avesse ragione: è la decisione, per quanto intuitiva, automatica o inconscia, il vero fulcro dell’interesse, ciò da cui dipende la qualità dell’azione molto altro. In aggiunta, la moderna biologia del comportamento ci avverte che il processo decisionale comincia prima di essere consapevoli di averlo avviato, quindi prima ancora di aver maturato un’intenzione: tanto che il dibattito attuale in argomento mette addirittura in dubbio alcuni capisaldi del libero arbitrio.  

Tornando alla definizione di saggezza pratica avanzata da Aristotele, vi è la seconda parte – quella che fa riferimento “alle cose che per l’uomo sono buone e cattive”. Questo aspetto è stato determinante per riuscire a “vendere” progetti di sviluppo ispirati alla saggezza pratica. È, per esempio, bastato ascoltare per un quarto d’ora i problemi di un direttore di stabilimento – assenteismo, senso di appartenenza, qualità, eccetera – per convincerlo dell’utilità di creare a tavolino una serie di situazioni lavorative di fabbrica risolvibili in modo “buono o cattivo”. 

L’idea fu quella di sottoporre dette situazioni ai capi reparto in apposite simulazioni e stare a vedere come se la sarebbero cavata. La formazione che seguì a questo assessment permise la riduzione tendenziale dell’assenteismo di quasi il 30% e un aumento considerevole delle proposte di miglioramento dal basso (operai), nei raparti coinvolti, rispetto a quelli non coinvolti. 

A quanto ho capito, dalla menzionata e da altre esperienze che potrei raccontare, la ragione del successo della saggezza pratica sta nel suo pragmatismo etico. Le cose buone sono spesso quelle giuste, e quelle cattive si rivelano altrettanto spesso sbagliate dopo un po’, come mi fece notare un capo squadra nella fabbrica citata. Ma per fare cose buone bisogna averne un’idea generale e poi saperla applicare nel caso specifico. 

Per chiarire un po’ di più il concetto, cominciamo dunque col dire che la saggezza è una conoscenza prima di essere una capacità: le persone devono conoscere gli effetti potenziali delle proprie azioni ben al di là dei confini del proprio ambiente abituale e in una prospettiva temporale lunga. Per trasferire un tale tipo di conoscenza Aristotele riteneva essenziale la partecipazione dei cittadini agli spettacoli teatrali: le azioni dei protagonisti e le loro ricadute erano la via catartica, cioè sentimentale ed estetica, per apprendere le regole morali; si tornava a casa dopo lo spettacolo pensando a come evitare, nella propria vita, di commettere i tragici errori visti fare dai personaggi, o alla vergogna che ne sarebbe conseguita. Noi tendiamo a pensare che la letteratura sia da insegnare ai ragazzi e che il carattere si formi a scuola, mentre agli adulti serva altro: Nonaka e Takeuchi sostengono il contrario da dieci anni, descrivendo iniziative di sviluppo che hanno per fine l’approfondimento o il ritorno ai grandi temi dell’esistenza. Io stesso ho partecipato a uno di questi eventi in Giappone sperimentandone in prima persona l’impatto etico-emotivo, peraltro insieme con una ventina di manager occidentali reduci da un corso convenzionale sulla leadership. 

D’altra parte, la saggezza pratica è anche intuizione del particolare, “intelligenza” nel senso della parola inglese insight. Si applica a tutte le situazioni poiché consiste nel non perdere mai di vista il “fine buono” cui asservire il “giusto mezzo”: in caso contrario si dovrebbe infatti parlare di astuzia, o di strategia o anche, nel versante cattivo, di manipolazione. Il fine buono è dunque un vincolo dell’azione, e come tale entra nell’algoritmo della decisione, imponendo alla persona di non accontentarsi delle prime soluzioni che gli vengono in mente e di non arrendersi troppo presto di fronte alle difficoltà.  

Infine, la saggezza pratica è esperienza, ed è questo un altro tratto di modernità neuro-scientifica del concetto. Sappiamo che il nostro cervello memorizza gli eventi sotto forma di mappe causa-effetto, che queste mappe sono in continuo aggiornamento in funzione degli esiti storici degli eventi vissuti od osservati, e che sono richiamate al momento di decidere l’azione nuova. Dunque, la saggezza, anche per questo meritevole dell’aggettivo “pratica”, si auto-alimenta con i casi della vita. Da questo punto di vista, il problema fondamentale delle persone e delle comunità sociali è come organizzare il processo di trasferimento dall’esperienza (degli eventi) alla coscienza, individuale e collettiva. Se ben registrato e attrezzato, questo processo permette di incorporare l’apprendimento, cioè di far diventare l’apprendimento stesso un abito culturale e un carattere etico. 

Carmine Coccorese – Partner di Skills Management Group 

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