B2B, B2C e altre distinzioni preistoriche
Quando un brand decide di promuovere i suoi prodotti o i suoi servizi, è ancora abituato a ragionare in base alla destinazione di utilizzo del prodotto o del servizio stesso. Se è destinato a clienti privati pensa a una promozione in logica Business 2 Consumer, se invece è destinato alle aziende si parla di Business 2 Business.
Questa scissione ha davvero ancora senso? Chi fino a ieri si è nascosto dietro all’etichetta del B2B, limitatamente alle dinamiche di marketing e di comunicazione, non si può più permettere di ignorare che il terremoto digitale è arrivato ovunque, anche nei contesti più specifici in cui si vendono bulloni, tubi o pompe idrauliche. I nostri device iperconnessi, a cui è stata tolta anche l’ultima barriera, quella dei “giga a consumo”, hanno definitivamente completato la frantumazione dell’epoca della comunicazione “a rubinetto”, distruggendo quindi anche un’altra storica distinzione dell’advertising, quella tra ATL e BTL: non c’è più un sopra e sotto la linea, perché semplicemente non c’è più la linea. Rassegniamoci all’evidenza più banale: siamo in un mondo on demand, in cui l’utente sceglie continuamente di quali contenuti fruire, detesta le interruzioni e costruisce i suoi palinsesti passando spesso da un device all’altro, da una piattafoma all’altra, da un linguaggio all’altro. Il fruitore non è più un soggetto statico, un destinatario in attesa che il messaggio lo raggiunga, ma è dinamico e selettivo. E attenzione, rassegniamoci anche a un altro principio: siamo tutti utenti, anche i decision maker delle aziende a cui vogliamo vendere servizi o prodotti.
Accettata davvero questa nuova realtà, il passo successivo è riconoscere una sostanziale convergenza delle esperienze di acquisto tra i privati e le aziende e rassegnarsi a parlare semplicemente alle persone, in quell’ottica human to human di cui si ragiona sempre di più e che sembra molto più adatta al nostro tempo dell’ammuffita contrapposizione B2B vs. B2C.
Le giovani e i giovani manager che prendono o prenderanno decisioni nelle organizzazioni, non acquistano e non acquisteranno più solo prodotti o servizi da semplici fornitori, ma esploreranno mondi, sposeranno valori, supporteranno cause. Le componenti empatiche, emotive e soprattutto reputazionali sono quindi alla base anche delle scelte B2B, e decretano tout court, di fatto, anche la morte del marketing così come l’abbiamo sempre inteso. In questo senso l’azienda è passata dall’affermare la sua leadership sul mercato, tentando disperatamente di essere visibile e puntando sulla quantità, a cercare di raccontarsi al cliente puntando sulla qualità e dando validi motivi per essere ascoltata. Tenendo presente che il cliente non solo ha cuore e cervello, ma ha anche LinkedIn, e spesso Twitter, Facebook, Instagram, Spotify, YouTube e un’infinità di altre finestre digitali sul mondo, dentro cui far scorrere solo ciò cui è interessato e – nel caso – da cui far sentire anche la propria voce.
Pensiamo solo a un dato, la relazione, spesso problematica, all’interno delle organizzazioni classiche, tra marketing e sales. Nel mondo di prima, il marketing nel B2B rappresentava solo la parte superiore dell’imbuto del processo di vendita, effettuava azioni prevalentemente BTL, molto specifiche e mirate, in un linguaggio tecnico, cedendo molto presto il passo ai commerciali, che, non a caso, si presentavano ai prospect con valigette piene di brochure, depliant e materiali promozionali. Oggi il rapporto è capovolto: i commerciali entrano in gioco in un punto sempre più basso del funnel, tanto da risultare, a volte, quasi superflui. In altre parole, il percorso è caratterizzato da sempre più interazioni (digitali ma non solo: abituiamoci a un neologismo tanto brutto quanto efficace, il Phygital) tra chi compra e il brand di interesse prima di un contatto diretto con la forza vendita, che spesso viene bypassata grazie a LinkedIn. Il marketing performativo, quindi, abdica e lascia spazio a chi realizza contenuti che, per funzionare:
- Devono essere sinceri
- Devono essere ingaggianti a prescindere dal legame con il brand
- Devono presentare il legame con il brand come una sorta di effetto collaterale
Questi punti definiscono concretamente l’approccio Human to Human perché presuppongono, come destinatario implicito, il lato umano delle persone, costringendo l’enunciatario a smorzare i formalismi e ad adottare un approccio più diretto.
Se torniamo indietro nel tempo, per il cosiddetto mondo B2B il marketing era un ambito complicato, che implicava azioni chirurgiche e una ricerca difficoltosa dei canali giusti, dei target utili, per trovare i quali si percorrevano traiettorie fredde e asettiche, dove non c’era spazio per la componente emozionale. L’approccio H2H costituisce un’opportunità, anche se richiede abilità, competenze e sensibilità che prima erano estranee alla comunicazione B2B. Per prima cosa, implica una rivoluzione lessicale, imponendo di sostiuire il lemma “target” con persone, un cambio di significante che si porta dietro, però, una nuova visione del mondo in cui il brand tenta di instaurare con i destinatari, potenziali clienti inclusi, una relazione più profonda, che precede la vendita. L’opportunità è indubbiamente rappresentata dall’allargamento sensibile del campo, delle possibilità e degli strumenti utilizzabili, ma anche dalle possibilità di profilazione che questo tipo di approccio offre.
I contenuti al centro: da leader di mercato a leader di pensiero
Kevin Roberts, CEO di Saatchi & Saatchi Worldwide, in occasione della IoD’s Annual Convention ha detto che «nel folle mondo di oggi la strategia è morta, le grandi idee sono morte, il management è morto e soprattutto il marketing, per come lo conosciamo, è morto».
Altri indizi testimoniano questa direzione: Abercrombie & Fitch Co. ha da qualche mese tolto il logo sulle proprie iconiche t-shirt e e progressivamente lo farà anche sulle felpe, ritenendo la sovresposizione del logo un elemento controproducente; o ancora, dallo scorso luglio, Procter & Gamble ha eliminato dal proprio organigramma la sigla marketing director e l’ha sostituita con quella di brand director allargando in modo radicale, con un semplice slittamento di significante, l’accezione di un’attività ormai votata a creare esperienze, racontare valori, generare contenuti e relazioni il cui primo obiettivo sia quello di coinvolgere (e non di vendere). Dati statistici raccolti da chi di marketing si intende e ne capisce, come la piattaforma americana HubSpot, confermano che il branded content ottiene oltre tre volte più contatti rispetto agli annunci a pagamento. Chiaro che un requisito fondamentale per incuriosire il cliente e attirarlo verso il brand è uno storytelling avvincente ma anche credibile. Secondo la società di ricerca Forrester, il 90% del viaggio di un potenziale cliente può essere completato prima che raggiunga un venditore, anche nel B2B, dove è ancora più importante diventare una parte credibile di un ecosistema di contenuti che permetta di essere dove sono i tuoi clienti e di creare con loro una semplice e forte connessione emotiva costruita sulla fiducia.
Da Return On Investment a Return On Involvment
Nel mondo degli affari, pensiamo al ROI come ritorno sull’investimento. Nel mondo di oggi, il mondo delle comunità e dei contenuti, dobbiamo aggiungere un altro significato a questo acronimo: Return On Involvment.
Pensiamo di costruire contenuti sufficientemente forti da creare una comunità, che includa sia consumatori finali, sia persone d’azienda, dato che, come abbiamo detto, anche loro sono consumatori finali. Chiediamoci: che cosa li fa agire? Che cosa li motiva? Che cosa possiamo fare per massimizzare ciò che ottengono dal loro coinvolgimento? Come possiamo creare un’esperienza che li arricchisca, li istruisca, li sostenga, li responsabilizzi e li faccia crescere durante il loro coinvolgimento nella comunità? Quando il ritorno sul coinvolgimento funziona, si ottiene quel senso di appartenenza e soddisfazione che favorisce impegno, continuità e crescita e impatterà poi sul ritorno sull’investimento.
Il Participation Brand Index redatto da Iris ha raccolto dati su migliaia di brand quotati in borsa in più settori, con lo scopo di comprendere la relazione tra la generazione di contenuti da parte di un marchio e le sue prestazioni aziendali. Iris ha riscontrato che investire nelle 20 marche più attive sul fronte dei contenuti, avrebbe portato in 3 anni un ritorno sull’investimento 4 volte superiore a quello che si avrebbe se si investisse nelle ultime 20 marche dell’indice. Investire nei primi 10 marchi più attivi in 3 anni frutterebbe un rendimento doppio rispetto all’S&P 500. L’Indice include marchi che hanno incorporato attività di coinvolgimento dei consumatori in forme innovative, come cortometraggi, podcast, inchieste di branded journalism, creare micrositi di marca, organizzare eventi per gli utenti, supportare cause sociali o legate alla sostenibilità, attività grazie alle quali hanno ottenuto fotografie molto precise delle loro comunità. Una prova evidente di come la trasformazione delle organizzazioni in content factory, case di produzione, redazioni e centri di co-creazione sia davvero sinonimo di smart business.