LA SOSTENIBILITÀ VA DAVVERO SOSTENUTA?

Negli ultimi anni la parola sostenibilità è stata tanto utilizzata.

Qualcuno potrebbe fare eco con la parola resilienza, altrettanto utilizzata o forse abusata.

È certo che negli ultimi anni, forse nell’ultima decade, al di là dell’uso più o meno appropriato della parola, il concetto di sostenibilità ha avuto una sua evoluzione e comunque ha trovato sempre più il proprio spazio in molti ambiti. Trova le sue origini moderne, senza voler andare a scomodare i teorici dell’economia civile del ‘700 e dell’’800, precursori del pensiero economico moderno, in un movimento di pensiero che ha trovato le sue basi in una cultura ambientalista di ampio respiro, che al di là del ribadire, a volte in maniera sguaiata, che il “verde” è bello, anche in maniera acritica, in realtà ha mosso le opinioni lungo la considerazione che una gestione di uno sviluppo economico incontrollato avrebbe compromesso l’intero ecosistema e conseguentemente minato lo sviluppo economico futuro.

Certamente l’economia occidentale, superata la fase di ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha imboccato un percorso di sviluppo economico sostenuto, basato essenzialmente su una economia dei consumi. Questo ha comportato una grande fase di benessere, seppur solo per una parte del mondo, che si è basata su un modello economico lineare, fondato sul tipico schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare”. Il tutto sulla presunzione, o con la non curanza, che questo modello economico tradizionale dipendesse, o potesse trovare le sue ragioni, dalla disponibilità di grandi quantità di materiali e di energia, facilmente reperibili e a basso prezzo. Presto ci si è accorti però che lo sviluppo economico, seppur trainato dai paesi occidentali, da un lato non riusciva a far decollare in tempi brevi le altre economie (peraltro, queste ultime, in una grande fase di espansione demografica, ciascuna di esse influenzate da velocità di sviluppo proprie e dinamiche diverse) dall’altro che tutte avrebbero comunque insistito a imitare, o perlomeno a scimmiottare, il modello occidentale, in una situazione però di consapevolezza generale sempre più presente che le risorse naturali non erano e non sarebbero state infinite.

Il Rapporto sui limiti dello sviluppo (dal libro The Limits to Growth. I limiti dello sviluppo), commissionato al MIT dal Club di Roma, pubblicato nel 1972,  predice, sulla base di una simulazione al computer World3, le conseguenze della continua crescita della popolazione sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana. Tale rapporto affermava che se l’attuale tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse dovesse continuare inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale.

Nel 1992 è stato pubblicato un primo aggiornamento del Rapporto, col titolo Beyond the Limits (Oltre i Limiti), nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta. Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update, è stato pubblicato il 1º giugno 2004 dalla Chelsea Green Publishing Company. In questa versione, gli autori hanno aggiornato e integrato la versione originale, spostando l’accento dall’esaurimento delle risorse alla degradazione dell’ambiente. Il recente aggiornamento del Rapporto si giova di due concetti affermatisi solo dopo la sua prima edizione: l’esigenza di uno sviluppo sostenibile (affermata per la prima volta nel Rapporto Brundtland del 1987) e la misurazione dell’impatto dell’uomo sulla Terra mediante l’impronta ecologica (tecnica introdotta da Mathis Wackernagel e altri nel 1996). Il Rapporto si apre, infatti, sottolineando che l’impronta ecologica ha iniziato a superare, intorno al 1980, la capacità di carico della Terra e la supera attualmente del 20%.

Si ribadisce l’assunto fondamentale: la Terra non è infinita né come serbatoio di risorse (terra coltivabile, acqua dolce, petrolio, gas naturale, carbone, minerali, metalli, ecc.), né come discarica di rifiuti. La crescita della popolazione e della produzione industriale comporta sia il consumo delle risorse, sia l’inquinamento.

Questo rapporto, e le tesi in esso contenute, fu sostanzialmente rigettata dalla cultura economica internazionale di allora, compresi illustri premi Nobel, quale l’economista Amartya Sen, assolutamente convinti che lo sviluppo tecnologico avrebbe sopperito a ogni rarefazione di risorse. Per molti anni questa fu la posizione ufficiale del mondo intero e solo pochi analisti degli equilibri tra disponibilità e impiego di risorse naturali avrebbero continuato nei decenni successivi a ispirare il proprio lavoro. Più tardi incominciò pian piano a prendere piede un movimento di pensiero che mosse poi non solo l’opinione pubblica ma anche illustri economisti e politici.

Il rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future) è un documento pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) in cui, per la prima volta, venne introdotto il concetto di sviluppo sostenibile. Il nome venne dato dalla coordinatrice Gro Harlem Brundtland, che in quell’anno era presidente del WCED e aveva commissionato il rapporto. La sua definizione era la seguente: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. In tale definizione, come si può vedere, non si parla propriamente dell’ambiente in quanto tale, quanto più ci si riferisce al benessere delle persone, e quindi anche la qualità ambientale; mette in luce quindi un principale principio etico: la responsabilità da parte delle generazioni d’oggi nei confronti delle generazioni future, toccando quindi almeno due aspetti dell’ecosostenibilità: ovvero il mantenimento delle risorse e quello dell’equilibrio ambientale del nostro pianeta. Lo studio prende avvio sottolineando come il mondo si trovi davanti ad una “sfida globale” a cui può rispondere solo mediante l’assunzione di un nuovo modello di sviluppo definito “sostenibile”. Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali.

Tuttavia, se da un lato lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore, dall’altro, nella proposta, persiste una ottimistica (per alcuni critici, eccessiva) fiducia nella tecnologia che porterà ad una nuova era di “crescita economica”; si teorizza infatti che il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, imposti dall’attuale stato della tecnologia e dell’organizzazione sociale, dalle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. La tecnica e la organizzazione sociale possono però essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica. Crescita economica che si basi sulla centralità della “partecipazione di tutti”. Il soddisfacimento di bisogni essenziali (basic needs), esige, non solo una nuova era di crescita economica per nazioni, in cui la maggioranza degli abitanti sono poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita.

Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali. Da allora molto si è fatto. E molto anche si è capito sul fatto che anche la presenza di uno sviluppo tecnologico sostenuto e mirato non sia sufficiente. È cresciuta in maniera sempre più diffusa anche tra gli economisti, i politici e i governanti la consapevolezza che questo primo concetto, che poneva come centrale il tema dell’ambiente, del rispetto dello stesso e della disponibilità limitata delle sue risorse, sarebbe dovuto marciare di pari passo con quello di un benessere sempre più diffuso e non limitato, o, meglio, arroccato a quei Paesi più evoluti e quindi più fortunati. Si diffonderanno, nel recente passato, molte teorie economiche, col tentativo di rivisitare quel modello di economia tradizionale che tanto ha contribuito allo sviluppo economico di molti, ma con altrettanti impatti sociali globali già subiti e prospettici.

Si arriva così ai giorni nostri.

Il Patto mondiale delle Nazioni Unite (United Nations Global Compact) è un’iniziativa ONU, nata nel 2000, per incoraggiare le aziende di tutto il mondo a adottare politiche sostenibili e nel rispetto della responsabilità sociale d’impresa e per rendere pubblici i risultati delle azioni intraprese; si articola in 10 principi:

Diritti Umani
  • Promuovere e rispettare i diritti umani internazionali
  • Assicurarsi di non essere complici negli abusi dei diritti umani
Lavoro
  • Sostenere la libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva
  • Eliminare tutte le forme di lavoro forzato ed obbligatorio
  • Abolire effettivamente il lavoro minorile
  • Eliminare ogni forma di discriminazione in materia di impiego e professioni
Ambiente
  • Supportare l’applicazione del principio precauzionale alle sfide ambientali
  • Intraprendere iniziative per promuovere la responsabilità ambientale
  • Incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie pulite che rispettino l’ambiente
  • Anticorruzione: contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse le estorsioni e le tangenti

Il 25 settembre 2015, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, alla quale hanno preso parte oltre 150 leader provenienti da tutto il mondo, ha adottato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, che si articola in 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs) e 169 sotto-obiettivi (target), i quali affrontano tutte le dimensioni della vita umana e del pianeta, dalla lotta a ogni forma di povertà, al miglioramento della salute e dell’educazione, alla promozione di un’agricoltura sostenibile nel rispetto dell’ecosistema terrestre.

L’Agenda rappresenta nello specifico la strategia elaborata dall’Assemblea per affrontare povertà, disuguaglianze e le altre sfide globali con un orizzonte temporale al 2030, attraverso la quale, oltre ad esprimere un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, si supera l’idea che la sostenibilità sia una mera questione ambientale, prediligendo invece una visione che integra le diverse dimensioni dello sviluppo: economia, ambiente, società e istituzioni. L’Agenda si ispira alle tre lettere dell’acronimo ESG che si riferiscono alle parole inglesi: Environmental, che riguarda l’impatto su ambiente e territorio; Social, che comprende invece tutte le iniziative con un impatto sociale; Governance, che riguarda aspetti più interni all’azienda e alla sua amministrazione. La complessità delle sfide dell’Agenda 2030 richiederà un sostanzioso contributo da parte di tutte le componenti della società, partendo dai governi fino alle imprese, passando attraverso la società civile e i singoli cittadini. Il concetto di Sviluppo Sostenibile proposto dal documento delle Nazioni Unite, si è evoluto in un equilibrio virtuoso tra le diverse dimensioni dello sviluppo, le quali si integrano perfettamente con l’approccio denominato “delle cinque P”: People, Planet, Prosperity, Peace, Partnership.

Gli obiettivi sono caratterizzati, così come descritti nel documento delle Nazioni Unite, da una marcata interdipendenza e universalità: questi, infatti, toccano problemi comuni a tutti i paesi che in un mondo globalizzato risentono necessariamente delle azioni di ciascuna singola nazione. Considerando tali aspetti, in aggiunta alla profonda trasformazione immaginata dall’Agenda, sarà richiesto uno sforzo condiviso tra tutti i paesi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. L’Assemblea nel definire gli obiettivi, infatti, non fa alcuna distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, pur riconoscendo che le problematiche di ciascun obiettivo non possano essere diverse a seconda del livello di sviluppo già conseguito. Ogni paese sarà quindi chiamato ad elaborare una propria strategia in modo da poter raggiungere, entro il termine stabilito, i target prefissati. Al fine di poter perseguire più facilmente quanto indicato nell’Agenda 2030, si è introdotto il concetto dell’economia circolare. La Fondazione Ellen MacArthur ha definito i tre principi fondamentali dell’economia circolare: “Progettazione dei rifiuti e dell’inquinamento”, “Riutilizzo in grado di conservare il massimo valore dei prodotti”, “Rigenerazione di sistemi naturali”. L’economia circolare è un modello perfettamente in linea, quindi, con quanto indicato dal programma dell’ONU, per arrivare al 2030 in modo più sostenibile e capace di far accedere all’energia anche chi ne è sprovvisto. Clima ed energia sono infatti i grandi fattori su cui si gioca il futuro. Si è infatti nel pieno di una transizione energetica diversa da quelle che l’hanno preceduta dall’inizio dell’era industriale. È dunque dagli anni Sessanta che si teorizzava la necessità di una transizione da un sistema economico lineare a uno circolare in cui le “esternalità” negative (consumo di risorse finite, inquinamento, produzione di rifiuti) diventino parte del sistema economico stesso.

Una crescita infinita non è possibile in un mondo caratterizzato da risorse finite. In 150 anni si è raddoppiato il contenuto di CO2 in atmosfera con conseguente aumento dell’effetto serra, con sensibile modifica del clima terrestre.

Per le aziende, la sfida dell’economia circolare è importante e impegnativa ed è necessario l’Eco-design per produrre un bene o un servizio in grado di garantire:

  • la maggiore durata possibile con più cicli di utilizzo,
  • le condizioni per ripararlo, rilavorarlo, ammodernarlo o aggiornarlo, 
  • l’uso di materiali che siano facilmente riciclabili al termine della vita utile del bene.

La sfida è enorme, ma altrettanto lo è l’opportunità che ci si presenta.

L’Unione Europea stima che la transizione verso un’economia circolare possa portare i seguenti vantaggi: 

  • riduzione della pressione sull’ambiente;
  • maggior sicurezza per la disponibilità di materie prime;
  • aumento della competitività;
  • impulso all’innovazione e alla crescita economica (aumento PIL 0,5%);
  • incremento dell’occupazione (700.000 nuovi posti di lavoro entro il 2030 nell’UE).

Nell’ambito di questo scenario, ogni azienda è chiamata a dare il proprio contributo. Al di là di un “sentiment” particolarmente sensibile, diventa di vitale importanza per la propria sopravvivenza. Sempre più i sistemi competitivi imporranno logiche in linea con un pensiero “sostenibile”: la sostenibilità d’impresa sarà il nuovo paradigma per fare impresa, che taglia trasversalmente ogni funzione aziendale. Anche i mondi finanziari saranno sempre più attenti e richiederanno livelli sempre più severi per poter finanziare le nuove iniziative. Già ora il sistema finanziario mondiale, infatti, predilige le aziende che fanno impresa in modo sostenibile, in quanto si è constatato che le stesse, nel lungo periodo, sono anche le più performanti.

In questo contesto di grande cambiamento, gli strumenti che permettano alle aziende di poter fotografare il proprio orientamento verso la cultura della sostenibilità, e che siano in grado di sostenere le stesse ed avviarle lungo questo percorso virtuoso di miglioramento continuo, sono sicuramente utili e funzionali.

Il Flash Audit di SMG, così come le sue proposte consulenziali di accompagnamento verso la cultura della sostenibilità, rientra proprio in questa tipologia di strumenti: si propone, infatti, come strumento a sostegno delle Aziende, per valutare la propria maturità all’interno del percorso verso il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile declinati nella propria dimensione aziendale.

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