Se 4 giorni vi sembrano pochi
Lavorare meno, lavorare meglio. Ridurre le giornate di lavoro e aumentare il benessere delle persone e la produttività. Questo è il tema. Dall’Islanda, passando per il Giappone, la Nuova Zelanda, la Spagna e la Scozia, fino agli Stati Uniti, si allarga la platea di Paesi che studiano la settimana lavorativa breve, scommettendo sulla riduzione di un giorno o di alcune ore giornaliere come viatico verso il benessere dei dipendenti e la maggiore produttività aziendale.
Non esiste una ricetta che vale per tutti i Paesi e per tutti i settori ma il punto fermo, universale, è la necessità di redistribuire il lavoro in maniera equa: abbiamo costruito una ‘società duale’, in cui la metà degli individui lavora troppo e l’altra metà non lavora affatto. Bisogna dunque trovare il modo per ‘spalmare’ gli aspetti negativi del lavoro su un numero maggiore di persone e condividerne gli effetti positivi. Ridurre gli orari, in questo senso, significa liberare tempo di vita. Ma la riduzione deve avvenire a parità di salario, solo così si aggredisce alla radice il cancro del nostro tempo: la diseguaglianza. A dirlo all’HuffPost è Giorgio Maran, esperto di economia e autore del saggio Il tempo non è denaro. Perché la settimana di 4 giorni è urgente e necessaria (Altrimedia Edizioni, 2020).
L’Islanda ha recentemente sperimentato orari di lavoro più brevi con notevole successo. A partire dal 2015 e dal 2017, sono state condotte delle prove coinvolgendo i dipendenti di diversi settori. Gli esperimenti miravano a ridurre la settimana lavorativa a 35 o 36 ore, equivalenti a una riduzione di circa una giornata di lavoro a tempo pieno, senza perdita di stipendio. Le prove sono state progettate per valutare se ridurre l’elevato numero di ore lavorative avrebbe potuto aiutare ad alleviare lo scarso equilibrio tra lavoro e vita privata e la bassa produttività, mantenendo identica la prestazione del servizio.
I risultati del test islandese recentemente pubblicati hanno rilevato che la produttività dei dipendenti coinvolti (impiegati in uffici pubblici, servizi sociali, scuole materne e ospedali) è rimasta costante o è addirittura aumentata. Per il director of research della società di ricerca Autonomy, che ha analizzato i risultati assieme alla Association for Sustainability and Democracy, lo studio è stato “un successo straordinario”. Grazie alla riduzione dell’orario lavorativo, i dipendenti islandesi hanno anche dichiarato di sentirsi meno stressati, vedendo diminuito il rischio burnout e migliorato il bilancio tra tempo trascorso al lavoro e quello dedicato alla vita privata.
Parlando dell’esperimento condotto in Islanda, Giorgio Maran afferma: È evidente che la produttività non dipende da quanto lavoriamo, ma da cosa facciamo e come lo facciamo. E il discorso non vale soltanto per i lavori d’ufficio. Prendiamo, per esempio, le persone che si occupano di cura della persona: durante l’emergenza coronavirus, abbiamo visto il personale sanitario affrontare carichi di lavoro enormi e turni interminabili. Non può essere la normalità. Anche in questi ambiti ridurre l’orario lavorativo a parità di stipendio permetterebbe di ottenere in cambio un servizio migliore per il cittadino.
Anche il Giappone ha attirato l’attenzione dei media globali, all’inizio di quest’anno, a seguito dell’annuncio del piano di politica economica annuale del governo che includeva la promozione della riduzione dell’orario di lavoro. Nel tentativo di migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita privata della nazione, le nuove linee guida hanno stabilito che i datori di lavoro avrebbero dovuto consentire ai dipendenti la settimana lavorativa di quattro giorni, nel caso chiedessero di farlo.
Un’analisi ha rilevato che i lavoratori erano più felici, consumavano meno elettricità negli ambienti di lavoro (riduzione del 23 per cento) e la produttività aumentava di un sostanziale 40% (Japan News Center 2019). In prospettiva, ciò richiederà un cambiamento significativo nella cultura del lavoro. Il lavoro eccessivo è una fonte così pervasiva di cattiva salute in Giappone a causa della prevalenza di infarti, ictus e suicidi legati al superlavoro che il fenomeno ha ricevuto una propria diagnosi: “Karoshi”, letteralmente “morte per superlavoro”.
La Nuova Zelanda ha recentemente attirato l’attenzione per gli impegni politici volti alla riduzione dell’orario di lavoro. Nella primavera del 2018 Perpetual Guardian, una importante società di gestione, ha attirato l’attenzione internazionale quando ha sperimentato una settimana di quattro giorni lavorativi nel corso di due mesi. Ai lavoratori è stato offerto un salario pieno per lavorare quattro giorni di otto ore. Per tutta la durata dell’esperimento, gli accademici della Auckland University of Technology hanno notato miglioramenti nel benessere dei dipendenti e nelle prestazioni sul lavoro. Hanno scoperto che la percentuale del personale che sentiva di poter gestire efficacemente la propria vita lavorativa è balzato di 24 punti percentuali (dal 54 al 78 per cento), mentre i livelli di stress sono diminuiti di 7 punti percentuali e la soddisfazione complessiva della vita è migliorata di 5 punti percentuali. L’analisi ha anche rilevato un miglioramento del 20% della produttività. Di conseguenza, Perpetual Guardian ha adottato le misure in modo permanente.
Attualmente alcune aziende in Spagna stanno testando la riduzione di un giorno o di alcune ore della settimana lavorativa (ma non tutte a parità di stipendio) e, nel frattempo, il Ministero dell’Industria sta valutando un progetto pilota da 50 milioni di euro per aiutare le imprese a ridurre l’orario di lavoro senza intaccare gli stipendi. Ultimo paese in ordine di tempo ad unirsi al “dilagante movimento globale per la settimana lavorativa di quattro giorni” (così lo definisce Forbes) è la Scozia. In quel paese il dibattito si acceso dopo che il governo ha annunciato l’intenzione di stanziare 10 milioni di sterline per finanziare le sperimentazioni in azienda. A dare una spinta alla realizzazione del progetto del governo potrebbe essere ora un sondaggio condotto dal think-tank Institute for Public Policy Research (Ippr) su un campione di oltre duemila lavoratori. I risultati sono assai incoraggianti: per l’80% delle persone ridurre il numero di giorni di lavoro, senza tagli in busta paga, favorisce il benessere individuale, mentre l′88% degli intervistati sarebbe disposto a partecipare a progetti pilota. Circa due lavoratori su tre, inoltre, sono convinti che il cambiamento potrebbe avere un effetto benefico sulla produttività del Paese.
L’Institute for Public Policy Research propone di “espandere il programma pilota a una vasta gamma di settori”, compresi quelli che non prevedono impiego d’ufficio (si veda la manifattura), in cui sarebbe più arduo il passaggio a una settimana lavorativa breve. La settimana lavorativa corta giova ai dipendenti, ma anche all’ambiente. Un recente studio degli attivisti di Platform London e di 4-Day Week Campaign, campagna mondiale per l’adozione della settimana lavorativa breve, ha suggerito che una riduzione dell’orario potrebbe diminuire la carbon footprint. Il calo delle emissioni di gas serra – evidenzia la ricerca – sarebbe reso possibile dal minor consumo di energia sul posto di lavoro, dalla riduzione del pendolarismo, dal taglio dell’inquinamento causato dai mezzi di trasporto. Il rapporto sottolinea anche che offrire ai lavoratori un giorno libero in più a settimana aumenterebbe la quantità di attività “a basse emissioni di carbonio” (riposo, esercizio fisico, ecc). In termini numerici, secondo lo studio, una settimana lavorativa di quattro giorni significherebbe diminuire le emissioni di 127 tonnellate entro il 2025 solo nel Regno Unito.
Laurie Mompelat, ricercatrice di Platform London intervistata dal Guardian, ha riassunto i vantaggi del regime a orario ridotto:
passare a una settimana lavorativa di quattro giorni, con una giusta retribuzione per tutti, può aiutarci a cambiare il modo in cui viene creato valore nella società, aggiungendo spazio per la cura, il riposo e le relazioni.